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LE LEGGI SULLA PESCA SPORTIVA

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Messaggio  GinoSpigolaAdmin Mar Ago 17, 2010 9:05 am

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Messaggio  GinoSpigolaAdmin Mar Ago 17, 2010 9:13 am

. – La pesca nel quadro del diritto della navigazione e della legislazione speciale: premessa metodologica


Il codice della navigazione dedica soltanto cinque articoli alla disciplina della pesca marittima[1] mentre il regolamento per la navigazione marittima tratta della stessa materia soltanto all’art. 408.

Nonostante il poco spazio dedicatole, essa tradizionalmente ha trovato, pur con contrasti e dissensi, la propria naturale collocazione nell’ambito della materia della navigazione[2], sia in ragione della strumentalità del mezzo nautico rispetto al fine, sia per l’uso delle acque, marine ed interne, per la cattura del prodotto.

Al di fuori della disciplina codicistica, invece, il settore della pesca è stato oggetto, nel corso degli anni, di crescente attenzione ed interesse da parte del legislatore[3]. Tuttavia, nei numerosi provvedimenti normativi è mancata, spesso, unitarietà di indirizzo, con la conseguenza che, a tutt’oggi, si ravvisa una normativa di settore non propriamente organica ed omogenea che non facilita il compito dell’interprete, sia per l’individuazione degli interessi tutelati, sia per il coordinamento delle norme al fine della loro concreta applicazione.

Il fenomeno sopra descritto origina dal fatto che detta normativa è il frutto di molteplici provvedimenti emanati in periodi anche molto lontani e diversi tra loro, per cui si è giunti alla coesistenza di disposizioni cui sottendono concezioni del tutto eterogenee e, addirittura, in qualche caso, contrastanti. Ciò rende difficile l’individuazione dei beni giuridici protetti poiché, nel corso degli anni, diversi sono stati gli interessi considerati meritevoli di tutela da parte dei vari legislatori. Così, ad esempio, accanto a disposizioni rivolte alla protezione della pesca intesa quale esercizio di una situazione giuridica soggettiva facente capo al privato, se ne aggiungono altre dirette a tutelare, in via prioritaria, le risorse biologiche del mare e l’ambiente marino.

Lo stato della normativa di settore appena descritto, in ragione dei diversi interessi tutelati, in qualche caso anche in aperto conflitto tra di loro, ha dato vita ad un sistema per certi versi in precario equilibrio, costringendo l’interprete ad un lavoro di coordinamento fra le numerose disposizioni succedutesi nel tempo.

A tutto ciò va aggiunto sia il fatto che le attribuzioni in materia di pesca hanno subito nel corso degli anni più di uno spostamento da un dicastero all’altro, con tutte le immaginabili conseguenze, sia che l’evoluzione del relativo assetto istituzionale ed amministrativo appare sempre più orientato verso un decentramento a favore delle amministrazioni periferiche.

Il settore della pesca, inoltre, è strettamente collegato ad altri, quali, per esempio, l’ambiente, l’urbanizzazione, la lotta all’inquinamento e così via. Come è stato evidenziato, da un esame delle norme vigenti in tali settori sembrerebbe che il legislatore che ha emanato le norme in queste materie non sia poi lo stesso che ha legiferato in materia di pesca, poiché la disciplina normativa non sempre appare coordinata ma, al contrario, è spesso caratterizzata da una profonda disomogeneità.

In definitiva, in alcuni casi, i mali vanno ricercati altrove poiché la pesca finisce per scontare anche i ritardi, le inadempienze e gli errori che sono stati commessi in altri settori ad essa funzionalmente collegati[4].

Date queste premesse e preso atto dello stato attuale del sistema normativo, appare condivisibile, quale approccio di carattere metodologico, partire dall’analisi storico-normativa[5], per cercare di individuare, da un parte, quali siano gli interessi attualmente tutelati dal legislatore in materia di pesca e, dall’altra, se sia possibile, anche alla luce dei più recenti spunti normativi, tentare una rimeditazione, con diversa chiave di lettura, del tradizionale inquadramento sistematico del cd. diritto della pesca.





2. – Evoluzione della normativa italiana sulla pesca: dall’Unità d’Italia alla fine della prima guerra mondiale


Al fine di cogliere le ragioni che hanno portato all’attuale sviluppo della normativa nazionale in materia di pesca appare opportuno, come accennato, in via preliminare, effettuare una breve ricostruzione, di carattere prevalentemente storico[6], di quelle che sono state le principali vicende evolutive del diritto della pesca[7] nel nostro Paese, sia alla luce delle modificazioni intervenute nel diritto interno, sia alla luce di quelle intervenute in campo economico, senza tuttavia tralasciare di dedicare qualche richiamo alle tendenze evolutive del diritto internazionale del mare e della pesca che hanno significativamente inciso sul diritto interno.

All’atto dell’unità nazionale, in ragione di impellenti esigenze di unificazione legislativa, il r. d. 22 dicembre 1861 n. 387 estese all’intero Regno la precedente legislazione sarda sulla pesca che risaliva al r. d. del 9 agosto 1827.

In pratica, al momento dell’unità nazionale la disciplina giuridica della pesca ricalcava quella della caccia e mancavano specifiche differenziazioni sia in ragione del luogo ove essa veniva esercitata, sia in base alle diverse tipologie che l’attività stessa poteva assumere. Le relative attribuzioni e funzioni amministrative erano di spettanza del Ministero dell’agricoltura, industria e commercio dell’epoca.

In seguito vennero emanati la l. 4 marzo 1877 n. 3706 ed i relativi regolamenti di attuazione, il r. d. 13 novembre 1882 n. 1090, per la pesca marittima, e il r. d. 15 maggio 1884 n. 2449, per la pesca nelle acque interne.

Finalità di tali interventi normativi era quella di rendere omogenea ed uniforme la disciplina della pesca nel mare e nelle acque interne con specifico riguardo alla polizia amministrativa, con l’individuazione dei tempi e dei modi per l’esercizio della pesca, con le disposizioni per la tutela delle specie ittiche, con la tutela dell’ordine pubblico e del diritto di proprietà.

Nel periodo giolittiano venne emanata la l. 11 luglio 1904 n. 378, il cui obiettivo principale, a differenza della precedente legislazione dove erano mancati interventi rivolti alla promozione ed allo sviluppo dell’attività di pesca, era quello di favorire, con apposite provvidenze, l’esercizio della pesca e di incrementare la produzione dello specifico settore, il tutto tramite lo sviluppo della cooperazione, l’addestramento del personale, il miglioramento dei sistemi di commercializzazione del pescato e la tutela del lavoro dei pescatori.

La politica di incentivazione della pesca proseguì con la l. 24 marzo 1921 n. 312 e con altri successivi interventi normativi diretti ad introdurre misure di promozione ed incentivazione, anche di carattere fiscale, tra cui l’istituzione del credito peschereccio, per le opere marittime, per l’ammodernamento dei battelli e, altresì, con l’introduzione dell’obbligo di assicurazione per i pescatori dipendenti e con misure di previdenza sociale.





3. – Il testo unico delle leggi sulla pesca (r. d. 8 ottobre 1931 n. 1604)


Le esigenze di riordino della normativa portarono all’approvazione del r. d. 8 ottobre 1931 n. 1604, testo unico delle leggi sulla pesca, avente l’obiettivo principale di fornire una risistemazione organica ed un assetto omogeneo all’abbondante produzione normativa che si era susseguita nel corso degli anni precedenti nel settore della pesca, anche al fine di coordinare la normativa meno recente, regolante prevalentemente l’aspetto amministrativo, con quella più recente, diretta ad incentivare lo sviluppo della pesca con misure di sostegno, agevolazioni e provvidenze a favore dei pescatori[8].

Il testo unico disciplina, innanzitutto, l’esercizio della pesca, dettando disposizioni di carattere generale, norme per i pescatori, norme in materia di vigilanza e sorveglianza sulla pesca e sul commercio dei prodotto ittici, norme concernenti violazioni di carattere penale e di carattere amministrativo con le relative sanzioni. Inoltre, detta norme sulle provvidenze a favore della pesca e dei pescatori, norme in tema di cooperazione, norme sull’assicurazione contro gli infortuni, nonché disposizioni relative alla distribuzione e alla vendita del pescato.

Di particolare interesse, anche al fine di una comparazione con i futuri sviluppi della normativa, sono gli artt. 1 e seguenti del testo unico, ove viene definito l’ambito di applicazione, affermandosi che esso regola la pesca nelle acque del demanio pubblico e del mare territoriale, ed in quelle di proprietà privata nei casi espressamente stabiliti. Non si ravvisa, dunque, una distinzione di disciplina tra la pesca marittima e quella non marittima.

La produzione normativa successiva al testo unico fino alla seconda guerra mondiale seguì le medesime linee guida, essendo diretta all’incentivazione ed allo sviluppo della produzione nel settore, anche in ragione delle idee autarchiche dell’epoca, rivolte ad ottenere nei vari settori produttivi, e quindi anche nella pesca, una produzione sufficiente al fabbisogno nazionale.

Queste ragioni portarono all’istituzione in vari settori, pesca compresa, di nuove figure, dotate di compiti e poteri propulsivi e di coordinamento, al fine di raggiungere una efficace programmazione degli interventi pubblici nei vari settori. Venne così istituito un Commissariato Generale per la Pesca[9], cui furono affidati compiti di coordinamento e di programmazione rivolti a realizzare un incremento sia nella pesca marittima che in quella nelle acque interne.





4. – La l. 14 luglio 1965 n. 963, sulla disciplina della pesca marittima ed il relativo regolamento di esecuzione (d. P. R. 2 ottobre 1968 n. 1639)


Dopo la fine del secondo conflitto mondiale la pesca marittima e la pesca nelle acque interne cominciano a seguire strade diverse e ad apparire nettamente differenziate, anche a causa dello sviluppo tecnologico intervenuto[10].

Da ciò è derivata una ricostruzione della materia ed una disciplina giuridica basata sulla netta differenziazione tra pesca marittima e pesca nelle acque interne.

Nelle acque interne, infatti, la pesca si atteggia soprattutto come attività di allevamento ittico, mentre quella marittima, con l’espansione soprattutto della pesca d’altura, appare sempre più avviata verso l’assunzione di dimensioni maggiori con caratteristiche vicine all’impresa industriale, anche se, negli ultimi anni, si è registrato un incremento dell’acquacoltura marina.

La pesca rivierasca e la pesca costiera, invece, che avevano sempre costituito il trait d’union tra quella marittima e quella nelle acque interne, proprio a causa dello sviluppo della pesca d’altura ed il crescente utilizzo di mezzi nautici sempre meglio attrezzati, assumono in misura sempre maggiore la veste di attività concernenti lo sport ed il tempo libero[11].

Tuttavia, la distinzione in parola non trova il suo fondamento nel criterio basato sulla diversità delle metodologie adoperate, rispettivamente, nell’ambito della pesca marittima e di quella nelle acque interne, bensì sul criterio basato sulla diversa natura giuridica delle acque nelle quali la pesca viene esercitata[12].

Con l’approvazione della l. 14 luglio 1965 n. 963, in tema di disciplina della pesca marittima, è considerata pesca marittima[13], indipendentemente dai mezzi adoperati e dal fine perseguito, ogni attività diretta a catturare esemplari di specie il cui ambiente abituale o naturale di vita siano le acque del mare o del demanio marittimo e le zone di mare ove sboccano fiumi ed altri corsi d’acqua, naturali o artificiali, ovvero quelle che comunicano direttamente con lagune e bacini di acqua salsa o salmastra a partire dalla congiungente i punti più foranei delle foci e degli altri sbocchi in mare[14].

Ne consegue che, dopo l’entrata in vigore della l. n. 963/1965, le norme del t. u. n. 1604/1931 sono rimaste in vigore soltanto per la pesca non marittima.

Pesca nelle acque interne è quella che si esercita nelle acque dei fiumi, dei laghi, dei torrenti e dei canali. In tale nozione vengono comunemente fatte rientrare anche la piscicoltura e l’acquacoltura[15]. La l. n. 963/1965, all’art. 1, comma 2, come accennato, considera, invece, pesca marittima ogni attività diretta alla cattura di esemplari di specie il cui ambiente naturale o abituale di vita è costituito dalle acque marine, indicate nel comma 1, indipendentemente dai mezzi adoperati e dal fine perseguito[16].

L’art. 2 del regolamento di esecuzione, riallacciandosi all’art. 1, comma 2, della l. n. 963/65 individua i prodotti della pesca come gli organismi, viventi e non viventi, animali o vegetali, eduli e non eduli, catturati nelle acque indicate dall’art. 1.

Il regolamento, all’art. 7, distingue, poi, in base allo scopo perseguito, tra pesca professionale, definendola come l’attività economica destinata alla produzione per lo scambio dei prodotti della pesca esercitata dai pescatori e dalle imprese di pesca, pesca scientifica, diretta a finalità di studio, ricerca e sperimentazione, e pesca sportiva, esercitata a scopo ricreativo o agonistico.

Nell’ambito della pesca marittima, poi, il codice della navigazione ed il regolamento per la navigazione marittima distinguono tra pesca costiera, pesca mediterranea e pesca oltre gli stretti[17]. Tale classificazione dei tipi di pesca è ripresa dal d. P. R. n. 1639/1968, regolamento di esecuzione della l. n. 963/1965 che, dopo avere individuato, all’art. 8, le categorie di navi da adibire ai vari tipi di pesca professionale, distingue quest’ultima, all’art. 9, in pesca costiera, a sua volta distinta in pesca locale[18] e pesca ravvicinata[19], pesca mediterranea o d’altura[20] e pesca oltre gli stretti od oceanica[21].

Inoltre, all’art. 10, il regolamento chiarisce che è altresì considerata pesca professionale quella esercitata mediante impianti fissi o mobili, temporanei o permanenti, destinati alla catture di specie migratorie, alla piscicoltura, alla molluschicoltura ed allo sfruttamento di banchi sottomarini.

La l. n. 963/1965 istituisce, presso le capitanerie di porto, il registro dei pescatori marittimi (art. 9), nel quale debbono iscriversi coloro che intendano esercitare la pesca marittima, subordinandone l’esercizio professionale a tale iscrizione (art. 10). Il regolamento di esecuzione, agli artt. 32 e seguenti, disciplina le modalità d’iscrizione nel registro, individuando i requisiti, le condizioni, i documenti e le qualifiche per ottenerla nonché i casi di cancellazione.

Sempre presso le capitanerie di porto è istituito il registro delle imprese di pesca (art. 11) ove hanno l’obbligo di iscriversi coloro che intendano esercitare un’attività imprenditoriale[22]. Anche in questo caso il regolamento di esecuzione, agli artt. 63 ss., disciplina le modalità di iscrizione, i requisiti e documenti necessari, nonché i casi di cancellazione.

L’art. 12 della l. n. 963/1965 stabiliva, poi, che le navi ed i galleggianti abilitati alla navigazione ai sensi dell’art. 149 c. nav., per esercitare la pesca dovevano essere muniti di apposito permesso. Il regolamento individuava sia l’autorità competente a rilasciarlo, sia le condizioni e le modalità per ottenerlo[23].

Dall’esame del dato normativo, appare evidente che il rilascio (come pure il rinnovo) del permesso di pesca avveniva al termine di un procedimento meramente ricognitivo diretto ad accertare la sussistenza, in capo al richiedente, dei requisiti soggettivi ed oggettivi prescritti. Oggi le cose stanno diversamente, essendo stato sostituito il permesso di pesca con la licenza di pesca, come meglio vedremo più avanti.

Infine, l’art. 14 della legge rinvia al regolamento per determinare i limiti e le modalità idonee a garantire la tutela delle risorse biologiche ed il loro migliore rendimento costante tramite norme riguardanti le zone, i tempi, gli strumenti, i tipi di navi non consentiti nell’esercizio della pesca ed il successivo art. 15, al fine di tutelare le risorse biologiche delle acque marine ed assicurare il disciplinato esercizio della pesca, stabilisce una vasta serie di attività vietate.





5. – La l. 17 febbraio 1982 n. 41


Una svolta fondamentale nel settore della pesca si è avuta con la l. 17 febbraio 1982 n. 41, piano per la razionalizzazione e lo sviluppo della pesca marittima, che ha introdotto la programmazione settoriale della pesca[24].

Tale intervento di programmazione si colloca nel più ampio e generale quadro della programmazione nazionale così come si è venuta sviluppando soprattutto a partire dagli anni ‘70 con l’istituzione di vari comitati interministeriali preposti al coordinamento dei principali settori dell’economia nazionale.

La l. n. 41/1982, al fine di promuovere lo sfruttamento razionale e la valorizzazione delle risorse del mare attraverso uno sviluppo equilibrato della pesca marittima, stabilisce che il Ministro della marina mercantile (oggi il Ministro delle politiche agricole), tenuto conto della programmazione statale e regionale, degli indirizzi comunitari e degli impegni internazionali, adotta il piano nazionale triennale della pesca e dell’acquacoltura[25]. Tale piano, elaborato dal comitato nazionale per la conservazione e la gestione delle risorse biologiche del mare, è approvato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (C.I.P.E.).

La l. n. 41/1982, sempre all’art. 1, individua i seguenti obbiettivi cui sono finalizzati gli interventi previsti dalla legge stessa: gestione razionale delle risorse biologiche, incremento di talune produzioni, razionalizzazione del mercato, miglioramenti occupazionali, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli addetti al settore, miglioramento della bilancia commerciale.

Per il raggiungimento dei predetti obiettivi vengono poi individuate le misure da adottare, quali: lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, la conservazione e lo sfruttamento ottimale delle risorse biologiche, la regolarizzazione dello sforzo di pesca in funzione delle effettive capacità produttive dell’ambiente marino, la ristrutturazione e l’ammodernamento dei pescherecci e delle strutture a terra, l’incentivazione alla cooperazione, lo sviluppo dell’acquacoltura, l’istituzione di zone di riposo biologico e di ripopolamento, l’organizzazione e lo sviluppo della rete di distribuzione e conservazione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura in acque marine e salmastre, il miglioramento ed il potenziamento delle strutture e delle infrastrutture al servizio della pesca.

Da quanto precede si evince senz’altro un sostanziale mutamento nell’atteggiamento del legislatore, di pari passo ai mutamenti, assai significativi, intervenuti a livello internazionale[26], per ciò che concerne la disciplina della pesca, poiché risulta chiaramente la volontà di razionalizzare ed ottimizzare lo sforzo di pesca, mentre per il passato si era perseguito soltanto l’obiettivo di aumentare la produzione dei prodotti ittici.

Particolare rilievo assume, poi, l’art. 4 della l. n. 41/1982 che, sotto la rubrica “Regolazione dello sforzo di pesca”, istituisce la licenza di pesca sopprimendo il precedente sistema basato sul permesso di pesca, con le relative conseguenze.

In definitiva, con la l. n. 41/1982 il legislatore nazionale ha dato preminente rilievo all’aspetto della conservazione e della gestione razionale delle risorse biologiche del mare, adeguandosi in tal modo agli indirizzi già particolarmente evidenti e sentiti in ambito internazionale, ridimensionando significativamente, come vedremo, il rapporto tra privato ed attività di pesca.





6. – Dal permesso di pesca alla licenza di pesca


Secondo la dottrina tradizionale le situazioni giuridiche soggettive attinenti all’esercizio della pesca venivano ricondotte al diritto soggettivo, per la pesca nell’ambito territoriale dello Stato, ed alla facoltà soggettiva, per quanto concerne la pesca nelle acque internazionali[27].

Per lungo tempo, infatti, la pesca è stata considerata quasi esclusivamente su un piano strettamente privatistico, quale libera estrinsecazione delle facoltà umane. Ciò anche in ragione del fatto che l’attività di pesca, anche se esercitata professionalmente, veniva considerata come scarsamente redditizia ed assai poco influente sul piano dell’economia nazionale[28], diversamente da quanto è invece accaduto da alcuni anni a questa parte.

Tale ricostruzione, sia per quanto concerne il diritto interno, sia per quanto concerne la disciplina internazionale, non corrisponde più all’assetto attuale della materia, poiché la disciplina della pesca ha subito, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, delle significative modifiche ed è stata oggetto di crescente attenzione e di puntuale e specifica disciplina, sia a livello interno, sia a livello internazionale.

In sostanza, si è registrata una significativa riduzione della sfera di libertà del privato nei riguardi dell’attività di pesca dovuta, essenzialmente, a due principali ordini di ragioni: l’importanza crescente delle risorse ittiche per l’alimentazione umana, unitamente alla conseguenziale, rilevante importanza economica ad esse così attribuita, e la preoccupazione del deterioramento irreversibile delle risorse ittiche stesse, dovuto sia a fenomeni di sovrasfruttamento che a fenomeni di inquinamento delle aree marine, con l’allarmante conseguenza dell’estinzione di alcune specie ittiche.

Questi fenomeni si sono mostrati con particolare evidenza soprattutto a partire dalla fine degli anni ‘50, con il passaggio dalla pesca artigianale alla pesca industriale, caratterizzata dalla meccanizzazione delle reti, dalla motorizzazione delle imbarcazioni, da moderni sistemi di conservazione a bordo del pescato e dall’utilizzo di apparecchiature per l’individuazione delle zone di pesca. Si è avuto, di conseguenza, un notevole incremento della produzione mondiale in questo settore.

La prima e più evidente conseguenza dell’incontrollato sviluppo della produzione è stato un impoverimento generalizzato delle risorse biologiche del mare che, già evidente sul finire degli anni ‘60, ha provocato una brusca flessione della produzione nel successivo decennio ‘70.

Anche le esigenze di tutela del mare dai fenomeni di inquinamento hanno assunto particolare rilievo a partire dai primi anni ‘70, soprattutto in seguito ad una serie di incidenti che hanno portato la soglia dell’inquinamento marino a livelli mai raggiunti prima, causando in tal modo danni irreversibili[29].

In un simile contesto, è presto risultata evidente la necessità di proteggere l’ambiente marino e le sue risorse biologiche, nonché l’esistenza di un comune interesse al riguardo facente capo non soltanto ai singoli Stati bensì all’intera Comunità Internazionale.

Alla luce di queste considerazioni, la questione della gestione razionale e della conservazione delle risorse biologiche del mare ha finito per assumere un significato ed una portata diversi rispetto al passato e le relative problematiche hanno iniziato ad essere particolarmente sentite, sia da parte dell’opinione pubblica, sia da parte delle autorità statali.

Tali motivazioni, che sono anche alla base del lento processo di erosione subito dai tradizionali principi del diritto del mare[30], hanno condotto alla riscoperta dell’esauribilità delle risorse ittiche ed al progressivo ridimensionamento dell’esercizio della pesca che da attività essenzialmente libera si è trasformata in attività controllata([31].

In effetti, già la l. n. 963/1965 prevedeva delle cautele, dimostratesi non molto efficaci, per limitare l’esercizio professionale della pesca a chi fosse fornito di apposito permesso e per l’impiego di determinati attrezzi.

Tuttavia, nell’ordinamento interno, l’affievolimento della situazione giuridica soggettiva del privato da diritto soggettivo ad interesse legittimo è intervenuto proprio con l’art. 4 della l. n. 41/1982 che ha sostituito al permesso di pesca, previsto dalla l. n. 963/1965, la cd. licenza di pesca, cioè un documento che autorizza la cattura di una o più specie, in una o più aree, da parte di una nave di determinate caratteristiche, con uno o più attrezzi[32].

Il legislatore del 1982, al fine di contenere lo sforzo di pesca sulla base della consistenza delle risorse biologiche del mare, ha attribuito al Ministro della marina mercantile (oggi al Ministro delle politiche agricole) il potere di stabilire il numero massimo di licenze di pesca, suddivise per zone, attrezzi, specie, distanza dalla costa ed apparato motore della nave. Inoltre, il Ministro determina i criteri per l’assegnazione delle licenze, qualora le richieste siano superiori alle previsioni di rilascio, e adotta le eventuali misure di riduzione del numero delle licenze o le modifiche che si rendessero necessarie in tema di zone di pesca, specie ittiche ed attrezzi utilizzabili.

E’ stabilito, infine, che la proprietà o il possesso di una nave da pesca non costituisce titolo sufficiente per ottenere la licenza.

A parte la terminologia utilizzata dal legislatore, sulla cui esattezza sono state espresse riserve[33], la fondamentale differenza tra permesso e licenza di pesca si registra dal punto di vista sostanziale, giacché dalla funzione di mera registrazione del pescatore o dell’impresa di pesca svolta dal primo si è passati ad un procedimento valutativo di carattere discrezionale da parte dell’autorità amministrativa, alla quale spetta di verificare la compatibilità della richiesta avanzata dall’interessato con gli obiettivi perseguiti dalla programmazione di settore e con le potenzialità produttive (e riproduttive) dell’ambiente marino[34].

Appare chiaro, allora, alla luce di quanto esposto, quali siano il significato e la portata dell’istituto introdotto con la l. n. 41/1982 e quali siano gli interessi tutelati in via principale. Infatti, se il Ministro ha la possibilità di stabilire il numero massimo di licenze di pesca, di determinare i criteri per l’assegnazione delle licenze qualora le richieste siano superiori alle previsioni di rilascio, di adottare le eventuali misure di riduzione del numero delle licenze, oltre al fatto che la proprietà o il possesso di una nave da pesca non costituisce titolo sufficiente per il rilascio della licenza stessa, è evidente che la situazione è profondamente cambiata rispetto al precedente sistema basato sul permesso di pesca.

Il permesso di pesca, infatti, in base alle modalità che caratterizzavano il procedimento di rilascio, veniva conseguito dall’interessato all’esito di un procedimento autorizzatorio a carattere ricognitivo e non discrezionale dei presupposti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla legge e dal regolamento per l’esercizio della pesca, intesa come diritto d’impresa, essendo il suo rilascio subordinato alla richiesta dell’interessato in possesso dei prescritti requisiti ed al possesso di una nave abilitata all’esercizio della pesca[35].

La licenza di pesca, invece, alla luce del procedimento per il suo rilascio, tenuto conto, altresì, dell’insufficienza del presupposto della proprietà o del possesso di una nave da pesca per l’ottenimento della licenza – fattori questi ultimi che hanno determinato la perdita del carattere meramente ricognitivo del procedimento per il conseguimento della licenza stessa – appare rilasciata secondo parametri di carattere discrezionale.

Ne consegue, quindi, che, a causa della progressiva pubblicizzazione subita dalla materia[36], il rapporto tra privato ed attività di pesca ha subito un forte ridimensionamento e si è passati da una situazione giuridica soggettiva qualificabile come diritto soggettivo (jus piscandi), seppure ricostruibile come diritto d’impresa, ad una situazione riconducibile alla fattispecie dell’interesse legittimo, stante il carattere subordinato dell’interesse del privato allo svolgimento dell’attività di pesca rispetto all’interesse primariamente tutelato dalla legge e individuabile nella conservazione e razionale gestione delle risorse ittiche[37].

Da quanto precede, è facile concludere per la perdita del carattere ricognitivo del procedimento autorizzatorio, al quale, invece, nella nuova disciplina, può essere riconosciuto un effetto costitutivo che sembrerebbe attrarre il procedimento di rilascio delle licenze nell’ambito di uno schema procedurale di carattere concessorio[38], con conseguente degradazione della situazione soggettiva facente capo al privato da diritto soggettivo ad interesse legittimo[39].

In conclusione, dalla ricostruzione delle vicende del rapporto tra privato ed attività di pesca ed alla luce delle modificazioni che tale rapporto ha subito in ragione degli interventi legislativi, è evidente che, al momento, l’interesse principalmente tutelato è quello riguardante la salvaguardia, la conservazione e la razionale gestione delle risorse biologiche del mare, passaggio obbligato per raggiungere l’obiettivo del rendimento costante ottimale delle specie ittiche, al quale rimane subordinato l’interesse del privato allo svolgimento dell’attività di pesca[40].





7. – Le attribuzioni in materia di pesca ed il conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca


Uno degli aspetti principali con il quale la pesca italiana ha dovuto e dovrà ancora confrontarsi nei prossimi anni riguarda senz’altro l’assetto istituzionale ed amministrativo del settore.

In particolare, si rende necessario fornire una risposta adeguata alla crescente domanda di decentramento amministrativo nell’ambito dei rapporti tra amministrazione centrale ed amministrazioni periferiche che rispetti, tuttavia, le indispensabili esigenze di coordinamento centrale ed unitario delle risorse e dello sforzo di pesca. In altri termini, occorre favorire il decentramento al fine di consentire un rapporto diretto tra utenti ed operatori del settore con l’amministrazione periferica senza mettere da parte, tuttavia, le esigenze di centralizzazione nella gestione delle risorse derivanti dal fatto che, come è noto, le risorse ittiche non rispettano i confini[41], né internazionali, né tantomeno regionali, ancora più ristretti. Dunque, non è possibile prescindere dalle necessità di omogeneità gestionale e di programmazione generale dello sforzo di pesca in ambito nazionale, oltre che nel più vasto contesto comunitario ed internazionale.

L’attuale assetto delle competenze in materia di pesca è il frutto di non brevi vicende.

Come già visto, al momento dell’unità nazionale il r. d. n. 387/1861 attribuiva le relative competenze al Ministero dell’agricoltura, industria e commercio, senza operare distinzione alcuna tra pesca marittima e nelle acque interne. Successivamente, venne emanato il r. d. n. 1090/1882 per la pesca marittima e dopo qualche anno il r. d. n. 2449/1884 per la pesca nelle acque interne.

La disciplina della pesca rimase indifferenziata nel r. d. n. 1604/1931, testo unico delle leggi sulla pesca, che, nell’introdurre una disciplina maggiormente articolata, trattava unitariamente della pesca marittima e di quella nelle acque interne. Le relative competenze, acquacoltura compresa, venivano assegnate al Ministero dell’agricoltura e foreste.

Sebbene l’intera materia fosse riunita nel citato testo unico, l’unità di trattazione era soltanto formale e ad essa non corrispondeva una effettiva unità sostanziale. D’altronde il testo unico riguardava principalmente la disciplina della pesca marittima, anche perché, in questa prima fase di sviluppo della legislazione nazionale, l’acquacoltura e le altre forme di allevamento ittico occupavano un posto assolutamente marginale rispetto alla pesca tradizionale.

Già con il t. u. del 1931, dunque, erano evidenti i primi segni di una differenziazione della materia, che il legislatore successivo ha finito per sancire.

Con il r. d. l. 31 dicembre 1939 n. 1539 fu istituito il Commissariato Generale per la Pesca al quale vennero attribuiti compiti di coordinamento e di programmazione al fine di realizzare un incremento nella pesca marittima e, altresì, l’aumento ed il perfezionamento degli allevamenti nelle acque interne, lagunari e marittime. Qualche anno dopo, con il d. lg. lt. 21 settembre 1944 n. 251 il Commissariato venne soppresso e le relative attribuzioni furono di nuovo devolute al Ministero dell’agricoltura e foreste.

Successivamente, con il d. lg. C. p. S. 13 luglio 1946 n. 26 venne istituito il Ministero della marina mercantile al quale, con il d. lg. C. p. S. 31 marzo 1947 n. 396 furono conferite le attribuzioni in materia di pesca già spettanti al Ministero dell’agricoltura e foreste, con esclusione di quelle relative alle acque interne che rimasero a quest’ultimo.

Nel frattempo, con r. d. 30 marzo 1942 n. 327 era stato approvato il codice della navigazione che tratta, brevemente, soltanto della pesca marittima, non facendo cenno alcuno a quella nelle acque interne.

La legislazione successiva, poi, è stata necessariamente influenzata dall’emanazione della Costituzione Repubblicana del 1948 che ha indicato, tra le materie di cui all’art. 117, riservate alla competenza del legislatore regionale, anche la pesca nelle acque interne.

In definitiva, alla scissione della materia hanno finito per corrispondere potestà legislative diverse: quella dello Stato per la pesca marittima e quella delle Regioni per la pesca nelle acque interne[42].

Con l’approvazione della l. n. 963/1965 e del d. P. R. n. 1639/1968 è stata disciplinata ex novo la materia della pesca marittima, per cui il t. u. n. 1604/1931 è rimasto in vigore solo per quella non marittima. Le attribuzioni in materia venivano affidate al Ministero della marina mercantile[43].

L’interesse, sempre maggiore, per il settore della pesca marittima è stato confermato con la l. n. 41/1982 che, come abbiamo visto, ha introdotto la programmazione del settore, attribuendone i compiti all’allora Ministero della marina mercantile.

Con l’approvazione della l. 5 febbraio 1992 n. 102, concernente l’acquacoltura, che ha risolto definitivamente la questione del suo inquadramento giuridico sancendone l’agrarietà, l’art. 3 della legge ha stabilito che le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano adottano programmi di sviluppo dell’acquacoltura in armonia con le disposizioni della legge medesima. Tale disposizione, tuttavia, non fa che ribadire un dato già acquisito, poiché la stessa qualificazione di attività agricola riconosciuta all’acquacoltura dal precedente art. 2 costituisce il presupposto per l’implicito riconoscimento di competenza in materia alle regioni.

In seguito, con la l. 4 dicembre 1993 n. 491, con la quale sono state riordinate le competenze regionali e statali in materia di agricoltura e foreste ed è stato istituito il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, sono state trasferite a quest’ultimo le funzioni in materia di pesca marittima, nonché quelle di già competenza del Ministero della marina mercantile in virtù della l. n. 963/1965 e della l. n. 41/1982.

Successivamente, in attuazione della l. 15 marzo 1997 n. 59, recante delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa, il d. lg. 4 giugno 1997 n. 143, riguardante il conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e di riorganizzazione dell’amministrazione centrale, ha abrogato la l. 4 dicembre 1993 n. 491 e soppresso il Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, stabilendo che tutte le funzioni ed i compiti svolti dal predetto Ministero, tra cui quelle relative alla materia della pesca, sono esercitate dalle regioni, direttamente o mediante delega di attribuzione, nel rispetto dell’art. 4 della l. n. 59/1997, alle province, ai comuni o ad altri enti locali e funzionali. Il d. lg n. 143/1997 ha istituito, poi, il Ministero delle politiche agricole che, fino alla ristrutturazione prevista dalla l. n. 59/1997, per quanto già di competenza del soppresso Ministero delle risorse agricole, svolge compiti di disciplina generale e di coordinamento nazionale.

In questo contesto si inseriscono, infine, il d. lg. 5 marzo 1998 n. 60 ed il d. lg. 30 marzo 1999 n. 96, recanti intervento sostitutivo del Governo per la ripartizione di funzioni amministrative tra regioni ed enti locali in materia di agricoltura e pesca ai sensi dell’art. 4, comma 5, della l. n. 59/1997, il d. lg. 31 marzo 1998 n. 112, riguardante il conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali in attuazione della l. n. 59/97, oltre agli interventi di cui alla l. 8 marzo 1999 n. 50, per la delegificazione e la semplificazione di alcuni procedimenti amministrativi ed il riordino dei testi unici. Tra le materie per le quali è previsto il riordino mediante l’emanazione di un testo unico è compresa quella della pesca e acquacoltura[44].

Significativa, in tale contesto, anche la l. 21 maggio 1998 n. 164, recante “Misure in materia di pesca e di acquacoltura”, che ha modificato la l. n. 41/1982 e ne ha esteso le disposizioni all’attività di acquacoltura[45].





8. – Il diritto della pesca


Alla luce di quanto precede, è ora possibile spostare l’attenzione sulle tematiche concernenti la definizione del diritto della pesca, il suo oggetto, il suo inquadramento sistematico.

Il diritto della pesca è costituito dal complesso delle norme che regolano la materia della pesca, ossia quelle norme che disciplinano, in modo immediato e diretto, i soggetti, i beni, gli atti ed i rapporti giuridici attinenti alla pesca. In definitiva, il diritto della pesca regola il fenomeno della produzione ittica che si concretizza nella separazione degli organismi presenti nelle acque dalle acque medesime[46].

Definito, dunque, il diritto della pesca come quella branca dell’ordinamento che disciplina tale attività, il primo problema è quello di inquadrarne l’ampiezza. Sul punto, nonostante qualche opinione contraria, appare ormai consolidato l’orientamento secondo cui non è possibile fare rientrare nel diritto della pesca qualsiasi norma che abbia comunque attinenza con la predetta attività, bensì l’ambito va necessariamente ristretto alle sole norme che direttamente si riferiscono all’esercizio della pesca[47].

Come è stato rilevato, poi, il diritto della pesca si presenta come una disciplina poco omogenea e si atteggia, quindi, come un tipico diritto composito che trova la sua giustificazione agglomerativa in un’attività economica ma che non riesce a delinearsi a sistema compatto proprio per le sue forti divaricazioni[48].

Oggetto del diritto della pesca, infine, è quell’attività dell’uomo diretta ad ottenere esemplari di specie il cui ambiente naturale o abituale di vita è costituito dalle acque, indipendentemente dai mezzi adoperati e dal fine perseguito[49].

Le maggiori dispute, tuttavia, si registrano su altre questioni. In particolare, si discute se il diritto della pesca sia dotato di una propria autonomia giuridica, prevalendo la soluzione negativa[50] e, soprattutto, se si tratti o meno di un diritto speciale e quale sia la sua esatta collocazione sistematica.

Al riguardo, tra le molteplici soluzioni prospettate, ora è stata accolta quella favorevole alla specialità della materia[51] ora, invece, è stata ritenuta preferibile la sua ricostruzione quale diritto specializzato anziché speciale[52].

Quanto alla sistematica della materia, allo stesso modo, ora è prevalso il suo l’inquadramento nell’ambito del diritto della navigazione, quale navigazione speciale[53], ora ne è stata rivendicata l’appartenenza al diritto marittimo[54], ora, infine, si è cercato di accostarla al diritto agrario[55].

In particolare, una parte della dottrina ammette, in tale branca dell’ordinamento, l’esistenza di principi e di istituti dotati di una propria fisionomia che consentirebbero di configurare il diritto della pesca come un vero e proprio diritto speciale[56].

Altra dottrina, invece, seguendo diverso ragionamento, ritiene che il diritto della pesca, allo stato attuale della legislazione, non possa essere considerato come un diritto speciale né, a maggior ragione, un diritto autonomo, bensì vada ricostruito come un diritto specializzato, cioè una branca del diritto oggettivo che applicando, approfondendo e talvolta adattando principi ed istituti di carattere più generale, regola una materia di natura particolare[57].

Quanto, invece, al problema dell’inquadramento sistematico della materia, secondo l’orientamento tradizionale, la pesca appartiene al diritto della navigazione, inserendosi fra le cd. navigazioni speciali[58].

Questo orientamento, analizzando i delicati rapporti tra diritto della pesca e diritto della navigazione, ripercorrendo alcune tra le tematiche centrali proprie della materia della navigazione, quali quelle riguardanti le differenziazioni tra esercizio nautico ed utilizzazione professionale del mezzo nautico, chiarito che l’esercizio rappresenta la fase tecnica e strumentale ed il presupposto per l’esercizio dell’impresa economica, delineata la distinzione tra esercizio (momento nautico) ed impresa (momento commerciale), conclude che il diritto della pesca, esercitata con mezzi nautici, non sia che parte del diritto della navigazione[59].

Al contrario, vi è chi, pur riconoscendo la specialità, in senso normativo-funzionale, della disciplina della pesca marittima, giunge ad una diversa conclusione, ritenendo forzato ed artificioso l’inquadramento della materia nelle cd. navigazioni speciali e preferendo, piuttosto, inquadrarla nell’ambito del diritto marittimo[60].

La pesca nelle acque interne, invece, in ragione delle sue caratteristiche, in particolare per la prevalenza dell’attività di allevamento rispetto all’attività di cattura degli organismi acquatici (acquacoltura e piscicoltura), è stata spesso accostata all’agricoltura e fatta rientrare nel diritto agrario[61].

La stessa normativa comunitaria, del resto, sembra confermare quest’ultimo inquadramento (economico-funzionale), inserendo i prodotti della pesca nell’ambito dei prodotti agricoli[62].

Per la normativa comunitaria, dunque, non è preminente il mezzo tecnico attraverso il quale la pesca si svolge, bensì prevale l’aspetto economico-produttivo. Per cui, come è stato affermato, ai fini dell’inquadramento sistematico della materia, mentre per il codice della navigazione e per la successiva legislazione nazionale prevale il momento nautico, per la normativa comunitaria rileva soprattutto l’aspetto economico-funzionale[63].





9. – Il diritto della pesca tra esercizio nautico e finalità economico-produttive


L’analisi delle principali linee evolutive della normativa in tema di pesca consente di concludere che si è passati da un sistema, rimasto in vita per lungo tempo, in cui lo sfruttamento e la conservazione delle risorse biologiche del mare era, sostanzialmente, affidato al buon senso degli addetti al settore, ad un sistema basato sullo sfruttamento e l’utilizzazione regolamentati delle risorse stesse, alla luce di una disciplina rivolta ad ottenere, da un lato, il rendimento ottimale delle specie ittiche, salvaguardando, al contempo, dall’altro, le esigenze di conservazione delle risorse e di razionale sfruttamento e gestione delle stesse, in modo tale da garantire non soltanto la continuità, bensì la continuità a livello costante dello sfruttamento delle risorse alieutiche, il tutto nel più vasto contesto della difesa dell’ecosistema, non soltanto marino, inteso quale interesse dell’intera collettività.

In definitiva, le problematiche della pesca marittima possono essere ricondotte nell’alveo del più generale concetto di sviluppo sostenibile (sustainable development) nell’utilizzazione delle risorse naturali[64]. Tale concetto è stato accolto nel codice di condotta per la pesca responsabile adottato dalla F. A. O. (Roma, 1995).

In conclusione, la consapevolezza dell’esauribilità delle risorse biologiche del mare e gli obblighi nei confronti delle generazioni future hanno imposto, come interesse preminente, la difesa di queste ultime rispetto all’interesse del privato allo svolgimento dell’attività di pesca, sia essa intesa come semplice espressione di libertà, sia essa legata ad interessi di carattere economico.

A questo obiettivo, dunque, mira la più recente normativa in materia di pesca, cercando di contemperare le esigenze della produzione e le richieste del mercato con le esigenze di protezione, conservazione e razionale utilizzazione delle risorse biologiche del mare, dirette a preservare le risorse naturali, non soltanto per la difesa dell’ecosistema marino, ma, altresì, alla luce delle necessità, anche alimentari, delle generazioni future, per cui l’attività di sfruttamento deve essere impostata secondo criteri tali da presentare un impatto reversibile sul livello delle risorse.

A di là di tali risultati, tuttavia, gli sviluppi della materia, anche legislativi, offrono spazio, probabilmente, per ulteriori considerazioni.

Una serie di elementi, unitamente ad alcuni interventi normativi, potrebbero condurre ad una seria rimeditazione del tradizionale orientamento favorevole all’inquadramento sistematico del diritto della pesca quale specificazione della navigazione.

Si rifletta attentamente sui seguenti aspetti: il passaggio delle attribuzioni in materia di pesca marittima dal soppresso Ministero della marina mercantile al Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, a sua volta soppresso, e, successivamente, al Ministero per le politiche agricole; lo sviluppo che ha conosciuto nel periodo più recente l’attività di acquacoltura[65], anche marina[66], che si atteggia oggi come vera e propria impresa (agricola)[67], al pari di quella di pesca marittima[68]; l’attribuzione delle competenze legislative alle regioni in materia di pesca interna[69] ed il trasferimento alle stesse delle funzioni amministrative in materia di pesca ed acquacoltura[70]; l’atteggiamento della normativa comunitaria che, al contrario di quella nazionale, non considera prevalente il mezzo tecnico attraverso il quale l’attività di pesca si esercita, bensì rivolge la propria attenzione, in via principale, all’aspetto economico-produttivo rivolto a finalità alimentari. Infatti, l’art. 38 del Trattato di Roma del 1957 contempla tra i prodotti agricoli quelli del suolo, dell’allevamento e della pesca[71].

A tutto ciò si aggiunga l’assimilazione, da tempo e da più parti prospettata, dell’attività di allevamento ittico e di coltivazione delle acque all’agricoltura[72] - che ha trovato accoglimento nell’art. 2 della l. 5 febbraio 1992 n. 102, che considera, a tutti gli effetti, l’attività di acquacoltura come attività imprenditoriale agricola[73] – ed il fatto che accanto alla pesca intesa come cattura in senso stretto di specie già esistenti in natura hanno trovato sempre maggior spazio la piscicoltura e l’acquacoltura, dove l’aspetto dell’apprensione materiale dei prodotti e, quindi, la separazione dall’elemento acquatico assume sicuramente un ruolo secondario rispetto alla pesca in senso proprio, mentre emerge, quale elemento comune alle due attività, il fine economico-produttivo rivolto a soddisfare esigenze alimentari.

Altro dato importante, poi, è costituito dalla crescente attenzione rivolta verso i prodotti ittici ai fini dell’alimentazione della popolazione e la trasformazione della dieta alimentare, sempre più rivolta verso il consumo di pesce, con la conseguenziale, rilevante importanza, economica e nutrizionale, attribuita alle risorse ittiche e la giustificabile preoccupazione del loro deterioramento irreversibile, dovuto sia a fenomeni di sovrasfruttamento (overfishing) che di inquinamento delle aree marine, con l’allarmante conseguenza dell’impoverimento o dell’estinzione di alcune specie[74].

Si tenga conto, inoltre, che la pesca-cattura non è più in grado di soddisfare le necessità alimentari della popolazione, anche perché lo sforzo di pesca non è più indiscriminato ma necessariamente contenuto entro quei limiti che consentano il razionale sfruttamento delle risorse (cd. pesca responsabile), garantendo la loro autorigenerazione ed evitando che la pesca indiscriminata porti all’impoverimento delle risorse, come è accaduto in passato.

La stessa l. n. 41/1982, poi, che ha introdotto la programmazione settoriale della pesca, ha segnato un notevole progresso rispetto alla precedente normativa, poiché contiene una disciplina comprensiva di una serie di aspetti connessi alla pesca[75], quindi non soltanto disciplina l’attività di cattura ma, altresì, considera la conservazione, la trasformazione, la commercializzazione dei prodotti, e la stessa acquacoltura[76], in una visione globale integrata nell’ambito di un processo economico-produttivo[77].

Significativa, ancora, in tale contesto, la l. 21 maggio 1998 n. 164, recante misure in materia di pesca e di acquacoltura, che ha modificato la l. n. 41/1982 e ne ha esteso le disposizioni all’attività di acquacoltura[78]. In particolare, tra le varie modifiche introdotte dalla l. n. 164/1998, va sottolineata quella apportata all’art. 1, comma, 4, n. 9, della l. n. 41/1982, ove l’obiettivo della riorganizzazione e dello sviluppo della rete di distribuzione e conservazione, verso il quale sono finalizzati parte degli interventi previsti dalla legge stessa, viene ampliato sostituendo alla precedente espressione «prodotti del mare» la più ampia indicazione «prodotti della pesca e dell’acquacoltura in acque marine e salmastre». Di interesse appare, inoltre, anche la modifica apportata dalla citata l. n. 164/1998 all’art. 1, comma 3, della l. 5 febbraio 1992 n. 72, concernente il fondo di solidarietà nazionale della pesca, che ha equiparato, ai fini di quest’ultima legge, gli acquacoltori ai pescatori[79].

Non vanno sottovalutati, infine, sempre nel contesto in esame, i forti cambiamenti che ha conosciuto l’agricoltura negli ultimi decenni[80] ed il lento processo di erosione (tutt’ora in corso) che sta interessando il concetto di «fondo rustico»[81] che, tradizionalmente, segnava il fondamento della distinzione tra regime agricolo e regime commerciale[82], e che oggi sembrerebbe, invece, alla luce dell’incidenza della legislazione speciale successiva sulla definizione codicistica di imprenditore agricolo[83], mutare il suo ruolo, determinando la necessità (o l’opportunità) di ridisegnare la dicotomia fra l’attività agricola e l’attività commerciale avendo presenti i mutamenti dell’economia ed i progressi della tecnica che incalzano, con una evoluzione che tocca, sembra ovvio, anche l’art. 2135 c. c., in una visione ove il terreno viene ad essere declassato a supporto o strumento eventuale dell’impresa agricola[84], in un’ottica innovatrice e sensibile all’analisi delle norme alla luce del progresso della tecnica e dell’economia.

Come è stato acutamente osservato, la nozione tradizionale di «fondo», inteso quale porzione del suolo terrestre, perde il suo originale valore ed il suo tradizionale significato e «… si annacqua»[85].

A tutto ciò si aggiunga, altresì, la preferenza, accordata da una parte della dottrina, alla concezione dell’agricoltura e della produzione agricola incentrate sullo svolgimento di un ciclo biologico, animale o vegetale, legato, direttamente o indirettamente, allo sfruttamento delle risorse naturali[86], la soggezione dell’attività di pesca a rischi ambientali non molto diversi da quelli che, a giudizio di molti interpreti, danno fondamento al regime agevolativo dell’agricoltura[87] e l’accostamento, ancora una volta operato da una parte della dottrina, tra l’impresa agricola e quella di pesca, le cui affinità con la prima appaiono maggiori di quelle con l’impresa commerciale[88].

In ultimo, infine, appaiono sicuramente significative, in questo particolare contesto caratterizzato dal rivalutato interesse verso le risorse ittiche, alcune delle vicende che hanno caratterizzato l’evoluzione del diritto del mare[89].

A partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, il diritto internazionale marittimo si è sviluppato sulla base di alcuni fattori nuovi e diversi rispetto a quelli tradizionali, soprattutto di ordine economico, che inducono a considerare non più (o non soltanto) la navigazione marittima, bensì lo sfruttamento delle risorse biologiche e minerali del mare e dei fondali come l’utilizzazione di gran lunga prevalente degli spazi marini da parte degli Stati[90].

Nei secoli precedenti, invece, la principale utilizzazione delle aree marine era stata la navigazione, poiché il mare era considerato soprattutto come una importante via di comunicazione e di traffici piuttosto che una fonte da cui attingere risorse[91].

Il sostanziale sovvertimento delle utilizzazioni tradizionali delle aree marine, insieme ai radicali mutamenti intervenuti nella Comunità Internazionale, soprattutto in seguito al fenomeno della decolonizzazione, che hanno provocato, tra l’altro, il sorgere di conflitti d’interessi diversi da quelli esistenti in passato, hanno determinato il rapido invecchiamento dei principi tradizionali del diritto del mare e la necessità, quindi, dell’elaborazione di nuovi principi in grado di meglio rispondere ai nuovi interessi ed alla nuova fisionomia della Comunità Internazionale.

Le caratteristiche del “nuovo” diritto del mare, così come delineato dopo la Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982, sono espressione dei forti cambiamenti intervenuti nel regime giuridico dei mari e possono così sintetizzarsi: il nuovo diritto del mare è essenzialmente un diritto protezionista, poiché dà prevalenza allo sfruttamento delle risorse rispetto alla navigazione ed è, inoltre, un diritto oceanico, poiché favorisce gli Stati che fronteggiano il mare aperto[92].

Il primo aspetto è quello che, nell’ambito del ragionamento seguito, assume maggiore interesse, poiché il nuovo diritto del mare considera prevalente lo sfruttamento delle risorse marine rispetto alla navigazione, confermando, in tal modo, che nel corso degli ultimi decenni la questione dell’utilizzazione delle risorse, specie di quelle biologiche, ha polarizzato l’attenzione dell’intera Comunità Internazionale, suggerendo la predisposizione di idonee misure rivolte al loro sfruttamento ottimale, gestione razionale e conservazione[93], soprattutto per l’importanza che esse rivestono per l’alimentazione della popolazione mondiale e per l’equilibrio degli ecosistemi marini.

Tutti questi indici fanno ritenere che per la pesca, intesa in senso lato, allo stato attuale, piuttosto che il momento nautico, che pure rimane centrale nella (sola) pesca marittima esercitata con navi, è divenuto preminente l’aspetto economico-produttivo per fini alimentari, per cui il diritto della pesca, piuttosto che come navigazione speciale rientrante nel diritto della navigazione, potrebbe collocarsi sistematicamente nel diritto agrario[94], in ragione della finalità perseguita dall’attività stessa, ossia del fine economico-produttivo rivolto a rispondere alle richieste alimentari dei consumatori ed alla crescente domanda del mercato.





10. - Conclusioni


Le profonde modificazioni intervenute negli ultimi decenni nell’economia mondiale hanno condotto verso la razionalizzazione dei processi produttivi e distributivi al fine di adeguare le tecniche di produzione (e la produzione stessa) alla domanda del mercato, soprattutto di lungo periodo.

In questo contesto, alcune attività produttive rivolte a soddisfare finalità di natura alimentare hanno visto accrescere la propria importanza a livello internazionale.

La pesca, appunto per la sua importanza ai fini alimentari, non è affatto rimasta fuori da tale processo evolutivo.

Anche per questa materia[95], dunque, è necessario stabilire se (o fino a che punto) il suo tradizionale inquadramento sistematico sia (ancora) compatibile con il progresso scientifico e tecnologico, con le leggi del mercato, con le esigenze dell’economia, con le mutate abitudini dei consumatori e con molti altri cambiamenti intervenuti nel tessuto normativo, sociale ed economico[96].

In definitiva, al fine dell’inquadramento del diritto della pesca occorre mantenere ben distinti due aspetti, tra loro collegati ma concettualmente diversi: l’aspetto nautico, tecnico e strumentale rispetto allo scopo perseguito (esercizio della pesca), e l’aspetto economico-produttivo, prevalentemente per finalità alimentari. Il primo, presente soltanto nella pesca esercitata con mezzi nautici, rimane saldamente collocato nella materia della navigazione e necessariamente disciplinato dal diritto della navigazione, mentre il secondo, comune a tutte le tipologie di pesca (sia alla cattura – venga effettuata tramite mezzi nautici ovvero disgiuntamente da essi – che all’allevamento) rivolte verso il mercato dei consumatori – e che oggi è diventato prevalente - potrebbe consentire l’inquadramento del diritto della pesca nell’ambito del diritto agrario.

A parte l’allevamento, si deve necessariamente tenere conto che le attività di pesca disgiunte dall’esercizio della nave (per esempio utilizzando navi esercitate da terzi) o che da esso prescindono del tutto (si pensi al caso della pesca realizzata con impianti fissi) costituiscono oggi una evidente realtà, probabilmente destinata ancora a crescere negli anni a venire. Tutto ciò è confermato anche dal dato normativo. Infatti, l’impresa di pesca si esercita sia mediante l’impiego di una o più navi destinate alla pesca professionale, sia mediante l’impiego di un impianto di pesca, cioè con lo stabilimento di apprestamenti, fissi o mobili, temporanei o permanenti, destinati alla cattura di specie migratorie, alla piscicoltura e alla molluschicoltura ed allo sfruttamento di banchi sottomarini[97]. In quest’ultimo caso, è evidente, il momento nautico è del tutto assente.

La stessa utilizzazione di mezzi nautici, poi, del tutto strumentale rispetto alla cattura degli esemplari, a ben guardare, si pone in termini non molto diversi da quelli che si riscontrano nell’utilizzazione di moderni macchinari impiegati nella raccolta dei prodotti agricoli[98].

Potrebbe allora concludersi che le esigenze di ordine economico-produttivo legate alla crescente domanda di prodotti ittici, prevalentemente per finalità alimentari, delle quali una delle manifestazioni più evidenti è il notevole incremento che hanno conosciuto negli ultimi anni il settore dell’acquacoltura, anche marina, ed altre forme di allevamento ittico, stanno operando delle trasformazioni tali da incidere significativamente sul tradizionale inquadramento del diritto della pesca che potrebbe trovare agevole collocazione nell’ambito del diritto agrario, in un’ottica che faccia leva non tanto (o non soltanto) sul momento di collegamento costituito dall’impiego strumentale del mezzo nautico, attraverso il quale una parte della pesca si attua, bensì sul momento teleologico, ossia sull’aspetto di carattere economico-funzionale per finalità produttive rivolte a soddisfare i bisogni alimentari della popolazione.

Il prospettato avvicinamento del diritto della pesca al diritto agrario è, tuttavia, un fenomeno di avvicinamento reciproco: il diritto della pesca, per le motivazioni innanzi esposte, tende ad allontanarsi dal diritto della navigazione per accostarsi al diritto agrario ma, a sua volta, anche quest’ultimo, in ragione dei significativi mutamenti intervenuti in agricoltura, che hanno, in vari casi, determinato l’abbandono di (o l’allontanamento da) talune concezioni tradizionali, fortemente restrittive ai fini del riconoscimento della qualifica agricola di un’attività (in primis, come accennato, la svalutazione del fondo quale elemento qualificatore dell’agrarietà), tende oggigiorno ad ampliare il proprio (sia consentito il gioco di parole) … “terreno”, magari anche a seguito di interventi del legislatore che riconducono espressamente alcune attività, di cui era incerta e discussa la qualifica, nell’alveo del mondo agricolo (come è avvenuto, appunto, per l’acquacoltura), finendo per ampliare i propri confini e per abbracciare nuovi settori, fino a qualche tempo addietro considerati assolutamente non riconducibili ad esso.

Se deve, quindi, valutarsi con favore un regime di disciplina per quanto possibile unitario dell’attività di pesca (intesa in senso lato e, perciò, comprensiva sia della cattura che dell’allevamento), tale regime, dopo la scelta normativa del 1992 che ha ricondotto espressamente l’acquacoltura all’agricoltura, potrebbe non identificarsi con quello commerciale[99].

A favore di questa tesi depone anche il recente avvicinamento operato dal legislatore tra pesca ed acquacoltura[100], oltre il fatto che ciò che accomuna le due attività, pur nella consapevolezza del diverso procedimento tramite il quale si ottiene il prodotto (la semplice «cattura» per la pesca, il più articolato «allevamento» per l’acquacoltura), è il fine economico-produttivo prevalentemente per esigenze alimentari della popolazione e tale fine, comune sia alla cattura che all’allevamento, appare, a livello mondiale, l’aspetto preminente nella materia delle produzioni ittiche, per cui alcuni altri profili, che spesso hanno portato ad abbracciare l’una anziché l’altra qualificazione giuridica dell’attività e l’una anziché l’altra collocazione sistematica della materia, quali l’utilizzo del mezzo nautico per il raggiungimento del fine (esercizio della pesca) ovvero la differenza tra mera apprensione di prodotti già esistenti in natura e la più complessa attività di allevamento, che si articola in varie fasi di un ciclo biologico, potrebbero oggigiorno dover cedere il passo alla soluzione favorevole al complessivo inquadramento della materia, fondato sull’aspetto economico-produttivo per finalità alimentari, ossia sulla destinazione del risultato produttivo all’alimentazione, in riferimento al quale l’applicazione del regime giuridico dell’agricoltura appare quello preferibile.



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